Si conoscono veramente solo i paesaggi che prima si sono sognati e sicuramente Freud esclamando “Träume sind auch Erinnern”, ci suggeriva che in fondo i sogni ci servono anche per ricordare. Certo è che oggi, nella estenuante ricerca dell’alterità, in un sistema planetario dove la produzione occupa il problema numero 1, dove la materia compresa quella artistica è concepita come un flusso di continui cambiamenti, prima ancora che come transforming materials come un sistema di nessi saldanti il Monodiano “caso e necessità”. In un pianeta, probabilmente non l’unico, dove la moltiplicazione del “disagio infantile” per la materia “sporca” fa agire almeno una parte dell’Umanità, quella più “evoluta”, in un clima di sterilizzazione e purificazione che nasconde però il suo rovescio e cioè inconsciamente affermando, come il personaggio sartriano Roquetin – Gli oggetti non bisognerebbe toccarli, perché non hanno vita! – Così proprio io non mi meraviglierò, e dico seriamente, se messo tra parentesi tutto questo, quasi chiudendo gli occhi, qualcuno, dolorosamente sensibilizzato dal dramma materiale della “sporcizia” (sto scrivendo da una periferia milanese), reagisca dapprima ispezionando i dintorni, là dove questi sono ancora possibili, e poi informandosi che questi, lui, li ha visti proprio così. Sto cercando di parlare della sopravvivenza della pittura, la quale constata la sopravvivenza della natura e la ritrae.

Maria Turra mi assicura che i suoi quadri sono “copie dal vero”, io le credo, ma sono altresì convinto che si possa dipingere un albero e contemporaneamente sognarlo. Sono anche convinto che se anche l’esperienza ci insegna che in fondo un albero o una roccia sono una presenza tranquilla e la ragione ci dice che un macigno è immobile, così non stanno le cose. Penso proprio che abbia ragione Michaux quando scrive brevemente – Un uomo fu colpito da un macigno che aveva guardato troppo a lungo – Il masso non si era mosso! L’artista, il sognatore, si inarcano, perché vogliono raggiungere quella pietra ostile. Desiderano rovesciarla. Nasce una lotta ostinata. Gli alberi, i fiori, i paesaggi e le nature morte di Maria Turra non mi sembrano tanto amate, quanto, così compresse nelle piccole tele, nascondere una ambivalenza sorniona. Forse l’autrice ne è più provocata, forse ha anche un po’ timore; e questi elementi al di là del sentimento formano una valenza più profonda, più stretta, perché toccano la volontà. Il pennello è sicuramente un’arma in mano ad un sognatore. A volte la spugna ha la meglio contro il diluvio. I fiori, la frutta rovesciata nel cesto, il cielo più pesante della terra, “una terra che beve lentamente il colore come una spugna assorbe l’acqua. Si arrotonda, si appesantisce, ritrova il suo equilibrio e oscilla, sotto i nostri piedi” scriveva V. Woolf. Allo stesso modo nelle opere di Turra i colori che compongono i soggetti sono come risucchiati dal potere della tela stessa indecisi se scomparire od offrirsi. Non mi stupisce se nei quadri di Turra, artista dal nome duro e fortificato, non appaiono solo immagini di gioia o infiorescenze primaverili, ma anche i colori “ripieni” di collera e forti sonorità metalliche. Le forme e le materie si urtano risvegliando risonanze e fragori che mirabilmente contraddicono la loro essenza esteriore. Un fiore profuma, non strilla, secondo il pensiero comune. Cobalto e indaco, vermiglio e cromo si associano oltre e per la forza dei loro colori anche per la durezza dei vocaboli. Senza dubbio un visitatore frettoloso, che non possiede una “fibra terrestre” e che non ha almeno una volta provato la collera, salterà e perderà questi aspetti, vedrà nella pittura di Maria Turra un bel procedimento per fornire delle descrizioni concrete, ma con questo perderà e trascurerà anche il resto, che in arte è poi la cosa più importante, si rifiuterà di riconoscere che un sogno ha prima di tutto un’immediata autenticità terrestre.

Prof. Paolo Monterisi